mercoledì 22 giugno 2016

Tappa Nove: da Sinuessa a Capua

21 giugno 2016

 
Diamo il benvenuto all'estate camminando tutte le ore di luce.
Già dai primi passi avremmo potuto intuire l'andirivieni labirintico che ci avrebbe accompagnate per tutto il giorno. La nostra tappa, infatti, inizia nell'indecisione di raggiungere l'Appia passando per la provinciale o via spiaggia. La prima, più corta; la seconda un centrifugato di bellezza che, quando ci togliamo le scarpe, ci sentiamo un po' stupide ad avere messo in dubbio.

 
Incontriamo una signora adagiata su di un lettino, poi solo pescatori che esercitano la pazienza di chi il mare lo conosce. Qualcuno se ne sta in acqua a raccogliere telline con quell'arnese che li fa sembrare tanti pittori alla ricerca di un posto buono dove posizionare il cavalletto. Sono così belli che neanche una foto di McCurry. Evitiamo il contatto diretto con l'acqua, sarebbe troppo difficile abbandonarla, dopo. Ma alla fine lui, il mare, ce la fa. Ce la fa sempre. Ci bacia i piedi destandoci dal torpore mattutino proprio nel punto in cui l'Appia gli volta le spalle.
Risaliamo fino alla periferia Nord di Mondragone, mentre cerchiamo un bar per le preghiere mattutine a Santa Colazione, un uomo urla al vento: "Tanto siete già tutti morti!". Buongiorno anche a te.
Ci concediamo una doppia razione che la gente qui si chiede dove li mettiamo tutti questi zuccheri. Siamo ragazze molto magre, in questa parte di mondo. Dopo lunghi tratti d'asfalto in mezzo ai campi, ci addentriamo tra gli alberi da frutto ormai al traguardo. Una signora, oltre una rete, ci chiama. Assistiamo al mistero dell'incassettamento della frutta, mentre aspettiamo che arrivi il figlio, il futuro erede.
"Guarda quanto sono belle queste ragazze". In un attimo siamo promesse spose senza saperlo. Prima di andarcene, ci regalano una decina di pesche. Ci chiediamo dove sta nascosta la cattiveria di cui tutti ci danno avvertimento perché noi, finora, abbiamo conosciuto solo cuori generosi.

 
Il sole di mezzogiorno comincia a farsi prepotente. Pensiamo di raggiungere la prossima masseria per sostare un po' all'ombra, attraversiamo "due campi divisi da un filare di alberi", poi un posto di blocco: al di là di un fosso, protetto dalla vegetazione, intravediamo la strada da prendere, ma sembra impossibile raggiungerla. Andiamo oltre, ma ci ritroviamo a vagare ai bordi dei campi coi pensieri bruciati dal sole: ogni sbocco è chiuso da barriere che la natura fornisce gratuitamente. La fatica costringe la nostra immaginazione a cercare assurde soluzioni - lanciare gli zaini tra i rovi, agganciarsi al ramo di un albero, ultilizzare la poltrona abbandonata come ponte - prima di tornare a fare i conti col fossato. All'alba delle tre decidiamo di affrontare i nostri mulini a vento, Giulia raccoglie un bastone da terra: "Per l'Appia!" e abbattendo le prime fronde inizia lo sterminio totale della vegetazione, scatenando l'inferno.

 
Il suo cuore ambientalista si intenerisce di fronte all'unica pianta che resiste all'attacco, ma Clara si intromette con prepotenza: "non è possibile, devo vincere io!" e così dà il colpo di grazia.

Avanziamo soddisfatte lungo la strada asfaltata puntellata di erba che a momenti se la mangia tutta fino a Massera Sant'Aniello.

 
Peppino, il proprietario, ci intravede da lontano e ci viene incontro. Ci accoglie in casa, come aveva fatto con Paolo e Riccardo, ci offre acqua e ciliegie. La simmetria di questi incontri ci fa sentire parte di una storia in tre atti con un bel finale. Peppino ha gli occhi buoni ma parla poco. Eppure le nostre curiosità devono aver smosso qualcosa, perché si offre di accompagnarci in un giro delle stalle, dove gli sguardi delle bufale sono tutti per noi. "Se gli animali stanno bene", dice, "il latte è più buono. Sono felici loro e siamo felici pure noi". La sua è una passione, non solo un'eredità.

 
Lasciata la masseria, alla prima ombra oltre la curva ci fermiamo. Pranziamo con il panino alla mortadella - ormai cotta - che ci ha lasciato Giuseppe. Restiamo incantate a guardare le formiche, la loro determinazione, la tenacia, la forza. Poi riprendiamo. Da qui è un continuo andare oltre e tornare sui propri passi, la lucidità non è più dei nostri, e per non abbatterci cerchiamo di riderci o cantarci su. Ed ecco De André, ecco i cori da stadio, ecco che adocchiamo una stazione di servizio, sogniamo di mettere i piedi nel lavandino e poi desistiamo appena aperta la porta del bagno. Anche noi non dobbiamo avere una fragranza fruttata, tutti ci guardano, nessuno si avvicina.
Andiamo avanti per inerzia nei nostri muscoli di legno. I piedi fanno così male che ad ogni passo sembra che prendano la forma delle pietre calpestate. Giulia ci canta su, ma solo le vecchie canzoni degli alpini ci danno il ritmo giusto per proseguire. Il tramonto alle nostre spalle è di un violarancio spettacolare, ce ne accorgiamo ma non riusciamo a goderne.
A Capua entriamo per la porta principale, il ponte sul Volturno ci accoglie come eroine, perché è così che ci sentiamo alle nove di sera. Non abbiamo ancora un posto dove dormire ma la strada ci conduce a bussare in un convento. Suor Carità ci apre la porta e sembra una scena già vista, ma proprio così va a finire.

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