giovedì 16 giugno 2016

Tappa Quattro: da Borgo Faiti a Terracina

16 giugno 2016

 
L'Oasi del Bar Club è un bar tavola calda luogo di passaggio incontro svago noia schermo per gli europei in via del Foro Appio a Borgo Fàiti. Ci sediamo a far colazione in attesa di Francesco, che qui conoscono come Saverio, passeremo la giornata pagaiando assieme a lui sul decennovium che arriva fino a Terracina. La nostra presenza crea interesse. Bruno è incredulo: "se fossi tuo padre ti legherei ad un albero", mi dice. Ma subito dopo ci riempie di domande sul percorso e l'Appia diventa l'argomento del giorno, qui al borgo. L'Oasi prende vita e torna ad essere quel punto di scambio che rappresentava nell'antica Roma. 
Oggi siamo immerse senza sosta in quel mondo perché il nostro traghettatore non ci abbandona e, caricati gli zaini, remiamo controvento.

 
Il tempo ci aiuta, non c'è sole oggi e le nostre scottature imbarazzanti ringraziano, respirano lo Scirocco che da Sud-Est ci secca le labbra e ci spolpa quei muscoli inesperti che non ricordavamo di avere. La traversata è lunga, ci aspettano sei/otto ore di navigazione, ma la verità è che il tempo in canoa non scorre, galleggia. Non mi annoiano i paesaggi tutti uguali recita una canzone che a noi piace tanto. Ed è proprio così. C'è una vita brulicante e sempre diversa se ci si immerge nei dettagli di una natura apparentemente monotona e questo salta all'occhio perché navigando si ha bisogno di una distrazione che possa rinnovare le energie. In acqua sei del fiume. Le nutrie, le alghe, il crescione, i ragni e le zanzare, i serpenti non sono più deplorevoli, fanno parte della natura tanto quanto te e deplorevole diventa l'immondizia sugli argini e la traccia dell'uomo che corre veloce sull'Appia alla nostra sinistra.

 
Parliamo ad alta voce. Francesco ci dice che chi fa un tratto di strada insieme, diventa amico. E noi lo sappiamo bene. Dice anche - anzi, ne è sicuro - che questo viaggio è solo l'inizio di qualcosa di immenso, dice che stiamo aprendo una nuova via, due donne travestite da bambine.
Per pranzo attracchiamo a Mesa, sull'argine, attraversiamo il grande rettilineo facendogli il gesto dell'ombrello e ci fermiamo a mangiare un boccone senza toglierci i giubbetti di salvataggio. La signora dietro al bancone ci parla lentamente, come fossimo stranieri, poi attraversa anche lei la statale per vedere la canoa che ci attende dondolando.
Ripartiamo con un gran ritmo affiatato che si esaurisce nel giro di poco: la stanchezza comincia a farsi prepotente e noi la sfidiamo con la nostra arma vincente, leggerezza. Intoniamo cori da stadio e ci incitiamo a vicenda che neanche alle Olimpiadi. Ci accostiamo ad un'insenatura delimitata da due muretti per un breve pit-stop. Francesco scende dalla canoa e Clara scorge un improvviso afflusso d'acqua farsi onda e dirigersi verso di noi. Indietreggiamo poco prima che l'idrovora - così si chiama - diventi un mostro marino mangiauomini, un Alien fluviale che accompagna le successive pagaiate. 
Che poi, in questo non-tempo, intuiamo che non è tanto la forza, quanto la sintonia, l'ascolto e l'accettazione del proprio ruolo che rendono i compagni un equipaggio. Per un attimo navighiamo senza fatica, all'unisono, scivolando veloci sull'acqua. Poi raffiche di vento scompigliano i piani e i capelli e arranchiamo fino alle porte di Terracina. Qui salutiamo il nostro amico per proseguire a piedi.

 
Il primo tratto è sulla statale, che ormai conosciamo come nemica per la proprietà commutativa di chi l'ha dovuta percorrere prima di noi. Clacson e gesti inequivocabili additano la nostra pazzia e quando riprendiamo l'Appia, quella Antica, quella vera, ci fermiamo un attimo per respirare a fondo, salve.

 
Terracina ci accoglie bizzarra, per i resti archeologici ultilizzati come nani, anzi come giganti, da giardino nei cortili delle case e per i personaggi curiosi che ci guardano: a noi ricordano tutti Osvaldo Paniccia, di cui cerchiamo le tracce ma senza risultato. Andiamo a dormire con ancora le onde sotto i piedi.

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