venerdì 1 luglio 2016

Tappa Diciotto: da Melfi a Venosa

30 giugno 2016

 
A colazione si sono svegliati tutti per salutarci. Pina ci ha preparato in un sacchetto anche la merenda, mentre Francesco si rotola nel letto in attesa del nostro bacio di arrivederci. La Madonna di Macera ci attende in controluce, è una bussola semplice quella che ci guida sull'Appia. Camminando la mattina, tenere il sole in fronte. Finisce che il braccio scottato sia sempre il destro, ché l'arsura si sposta verso Sud.
La strada è una lingua bianca che segue il saliscendi delle colline, che perdono le rotondità sinuose per mostrare i loro fianchi d'argilla. Godiamo di una particolare solitudine, quella dei paesaggi inaccessibili ai più, solo che qui non siamo sull'Himalaya o al centro della Foresta Amazzonica, ma nel cuore dell'Italia. Preferiamo il silenzio, questa mattina. Certi luoghi ti risuonano dentro e d'istinto sentiamo il bisogno di proseguire senza far rumore.
Non è noia quella che ci accompagna, è una sensazione di essere formiche in uno spazio e in un tempo più grandi di noi. La testa brucia già alle nove del mattino, l'acqua evapora nei nostri piccoli sorsi e i passi rallentano. Ci trasciniamo in una sorta di indolenza da siesta messicana facendoci vivere i tempi del Meridione legati ancora al clima, alla luce, a un modo di affrontare il tempo sottomesso che nemmeno il lavoro lo può controllare.

 
Clara, passo rallentato dalle vesciche, fa il suo primo incontro con un orbettino - non fidatevi del nome, era molto lungo, giuro - che sbuca dal lato del sentiero terrorizzato dai nostri chili in movimento. Nel terrore invoca il dio inutile dei momenti di disperazione e con uno scatto che avrebbe fatto invidia a Bolt raggiunge Giulia, incantata dalla visione. I dolori fisici non batteranno mai le paure recondite.
I nostri momenti avventura sono così, ci sorprendono inaspettati, un po' come il "piccolo canyon" che incontriamo dopo aver attraversato una città fantasma degna dei migliori film western.

 
Una discesa da vertigine che percorriamo sprofondando in una terra scura, morbidissima, poi la delusione che il ruscelletto e la fontana sono solo un goccia a goccia limaccioso. Davanti a noi si para un muro di rami e rovi secchi che scavalchiamo, poi un fico ci sbarra la strada e troviamo un varco in mezzo ai suoi rami. Infine, un muro vero di mattoni dismessi obbliga ad arrampicarci, noi e i nostri zaini.


Venosa la scorgiamo su un altopiano; evitiamo la provinciale tagliando per un sentiero dal quale emergono pietre che a noi serve chiamare Appia. Riusciamo a raggiungere la città ciondolando sotto il sole di mezzogiorno.
Non abbiamo ancora un posto dove andare, ma alla seconda signora che ci indica la chiesa del Sacro Cuore come luogo accogliente, noi bussiamo. Don Giuseppe ci mette a disposizione la sua casa e - solo per noi - interrompe la sua dieta facendoci gustare un pasto di quelli che neanche la domenica. "Quanti altri preti avete importunato?", ci chiede scherzando. Si vede che c'è un cuore grande, lì dietro.
Nel pomeriggio andiamo alla scoperta di Venosa. Pochi passi e restiamo attonite davanti al castello, dal quale si srotola la strada principale, fino agli scavi. Le bellezze sono tutte lì, annidate lungo una strada stretta perché antica, dove le macchine sfrecciano schiacciando i passanti sui gradini delle case. Non le avremmo gustate senza i racconti di Nicola, che ci raggiunge con sua moglie Serena e la piccola Velia, per farci da guida. Sa tutto di questa città e ce ne racconta virgole e accenti, portandoci a conoscere le persone che rendono Venosa unica.

 
Rocco, primo hippie lucano a vendere jeans in tutta la Basilicata, ora gestisce un locale country con birre artigianali che più tardi gusteremo onorando la passione del nostro mentore P. Rumiz; poco più avanti, grembiule nero sporco di pittura, ci viene incontro Enzo e ci fa entrare nella sua Odissea, un negozio che sfugge le categorie. Lui e la moglie, dipendenti statali, si sono licenziati per ridare vita agli oggetti, riassemblarli e curarli con precisione chirurgica. Sono tutti esposti in un piccolo mondo da fiaba, che quasi non si scorge dalla strada. Ritroviamo la stessa poesia in quello che fu il convento benedettino che Luigi con qualche amico ha fatto rivivere dopo quasi vent'anni, trasformandolo in un luogo d'arte, luogo per tutti. Proseguiamo lungo questo filo di perle passando per la presunta casa di Orazio e arriviamo fino all'area archeologica, colorata dalla luce sanguigna del tramonto. Sullo sfondo dell'Incompiuta, una chiesa benedettina che attraversa la Storia, davanti a noi compare una strada dall'aria familiare. Appia? Può darsi. Ma in fondo, come dice il nostro cicerone venosino, "non importa tanto che una storia sia vera o finta, l'importante è che sia ben raccontata".

 

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