lunedì 11 luglio 2016

Tappa Ventisei: da Taranto a Masseria Le Monache

9 luglio 2016

 
La giornata si preannuncia torrida già alle sei del mattino. Taranto è sveglia da un pezzo coi suoi venditori di cozze agli angoli delle strade; uno di loro ci saluta e ci augura buona giornata con una sincerità che ci disarma. I negozi sono ancora chiusi, mentre ci allontaniamo dal centro possiamo ammirarne le insegne. Ci colpiscono alcuni parrucchieri per signora: Armonie taglienti, Euforie femminili, Intensity. La controparte maschile propone il Festival dei baffi in un paese della provincia.
Nella prima periferia svettano chiese brutte e palazzoni color anni settanta alle cui spalle si apre un giardinetto dove una donna sta facendo passeggiare il suo cane. Tra l'erba a ciuffi alti scorgiamo pietre che sentiamo familiari. Sì, perché quello non è un giardino pubblico, ma il Parco archeologico delle mura greche. Un uomo, roncola e buste di plastica in mano, raccoglie qualcosa da terra: rucola selvatica, altro che quella del supermercato. L'Appia oggi è anche questo.

 
Per un lungo tratto stiamo sul bordo della provinciale che ci arrostisce per bene le suole delle scarpe e i polpacci. Ne approfittiamo per leggere le parole di P. Rumiz su Taranto e ci mangiamo le mani per non aver raschiato il calcare dai muri, non aver cercato il cuore della città, non aver chiesto abbastanza da scoprirne i gioielli nascosti, quelli conservati al museo archeologico, per esempio. Ragioniamo allora sul senso di questo andare, perché l'Appia è una strada, una direzione, e il nostro è un attraversamento che spesso ci permette soltanto di gettare un rapido sguardo sui luoghi che calpestiamo. Sarebbe bello ci fosse sempre qualcuno a prenderci per mano e accompagnarci nei segreti di questi posti. 

 
Su questi pensieri lasciamo un poco l'asfalto. I campi intorno a noi sono popolati di macchine parcheggiate all'ombra, chissà dove si nascondono tutti. Oggi è il primo giorno di "paura che finisca". Ce lo diciamo all'unisono e lo ritroviamo nel libro stesso e nella sua folle idea di non arrivare fino a Brindisi per non lasciare che il cammino si concluda. Forse è colpa di Taranto che ti appiccica quella sensazione di nostalgia che bisogna scrostarla a morsi. Ma bisogna proseguire, altrimenti non si può tornare, non si può ripartire.
Attraversiamo San Giorgio Jonico e Carosino dove ci concediamo una pausa all'ombra sull'unica panchina libera in piazza. È tanto diverso il sole pugliese di queste ultime tappe, è un caldo che non è solo percezione esterna ma si fa strada dall'interno e alza le temperature dei nostri corpi, che ora sono tizzoni. Prima di immergerci nuovamente nella campagna, ammiriamo una delle ultime case di Carosino. "Villa Elvis" è un tributo all'America del sogno con profusione di bandiere, una statua della libertà in cima alla recinzione e la sagoma del Re battuta sul ferro del cancello principale.

 
"Più Appia di così si muore. Tutta dritta, non c'è un cazzo di niente. Bello".
L'ultimo tratto di strada è un attraversamento mefistofelico senza uno stralcio di ombra. Al punto di ebollizione camminiamo vuote di pensieri e di parole in questa campagna arsa. La affrontiamo nell'unico modo che conosciamo, cantando forte come farebbe Beyoncé, se solo sapesse ballare la pizzica.
Prima di imboccare la deviazione per Masseria Le Monache avvistiamo il fumo di un incendio, lo segnaliamo alla forestale ma non è facile dare loro una collocazione. "Sull'Appia Antica", vorremmo dire, ma per la maggior parte della gente questi sono solo campi. 

 
Masseria Le Monache è un complesso dai muri inconfondibilmente rossi. A darci il benvenuto sono tre cani un po' acciacciati e una gattina bianca e nera, fiocco rosso al collo e miagolio insopprimibile. Ci siamo solo noi e Kamel - "che però si dice Kamon, come Tutankhamon" - che l'abitudine al vivere in solitaria ha reso socievole e nudo. Ci barrichiamo in casa perché il tempo possa scorrere lontano dall'afa che immobilizza la vita di questo luogo sospeso.
Nel tardo pomeriggio chiediamo un po' di caffé ai vicini per ritrovare la lucidità che ci permetta di scrivere e in un attimo siamo sedute con Antonietta e Francesco a mangiare uva primizia e sorseggiare il caffè freddo e zuccherino che da queste parti è un bene di prima necessità. Parlano poco, lo fanno coi gesti e coi silenzi, soprattutto. Quando avevano venticinque anni si sono conosciuti al supermercato, si sono sposati subito, "una volta era così", e hanno acquistato questa campagna. Campagna che per loro significa tranquillità, stare seduti fuori a chiacchierare all'ombra, rispettare le stagioni e il cambiare della luce, lavorando al fresco dell'alba e del tramonto.

 
Il nostro dopo cena è sedie in cortile e chiacchiere sotto le stelle con Kamel. È un personaggio, Kamel. Occhi color notte, sorriso beffardo, gambe tornite di chi è abituato a usarle per lunghe distanze. Tra una sigaretta e un sorso di tè, che però odora di alcol, ci racconta della sua vita e dei suoi pensieri. Non capiamo bene quanto ci provochi o se ci parli seriamente, di certo non gli diamo i cinquantadue anni che dice di avere: "il segreto è la tranquillità. Qui sto bene, anche se d'inverno cambia tutto, dipingo, faccio ceramiche, suono il banjo. Sono un artista". Difficile crederlo guardando le sue mani callose, poi però estrae i suoi quadri esponendoli in fila in una piccola mostra temporanea davanti al pozzo.
"Qui d'inverno ci sono i fantasmi: vedi quegli ulivi laggiù? Parlano. E anche dentro la masseria sbattono porte, gli oggetti si spostano. Sono le monache che mi fanno i dispetti. Ma io non ho paura. Male non fare, paura non avere", ci racconta mentre pulisce la cagnolina a pelo lungo dalle spine della campagna.

 
Quando gli occhi ci si chiudono, lui incalza: "non serve dormire tanto, quattro ore bastano. Vedete quanto è bella una serata come questa? Io mi ricarico così, con il sorriso e con le persone. Sapete quante cellule ci sono nella nostra testa? Osservate le stelle. Bisogna tenerle accese, se le lasciate spegnere invecchierete più in fretta".
Buonanotte.

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