mercoledì 13 luglio 2016

Tappa Ventotto: da Oria a Mesagne

11 luglio 2016

Usciamo da Oria in punta di piedi inerpicandoci per le sue viuzze illuminate dalla luce dell'alba, attraversando i viottoli che fanno rumore al primo calpestio dei ciottoli bianchi scivolosi. Oria ancora intatta, Oria addormentata, Oria che d'un tratto è cittadina anonima nei lunghi viali in cui si alternano appartamenti e negozi.
Costeggiamo la ferrovia e subito siamo immerse in una campagna sopita ma sensibile. Procediamo sonnolente ma i nostri passi ormai si sono assestati su di un ritmo baldanzoso, ignoranti ai piccoli dolori, ai terreni sconnessi, alla stanchezza accumulata sulle giunture giorno dopo giorno. La stradina è avvolta da uliveti, terra rossa e cicaleccio mattutino. Oggi siamo al cospetto di queste divinità arboree; camminiamo nel loro tempio, tra le navate di filari costruiti con una meticolosa geometria. Essere un ulivo, che mostra orgoglioso le sue ferite e le difficoltà che ha incontrato. E quanto più è imperfetto, contorto, smembrato, tanto più è affascinante e maestoso. Forte nella sua fragilità, non si vergogna del suo percorso: i tentativi e gli errori sono la sua evoluzione visibile.

 
Una curva della strada ci riporta alla realtà: per proseguire ci tocca attraversare la ferrovia. Sui binari. Ormai non c'è più stupore, la nostra fiducia nella guida di Riccardo è quasi cecità, "quando è strano, è giusto". Rimaniamo affascinate dalla chiesetta bizantina della Madonna di Gallana ma purtroppo non riusciamo ad entrarci, da queste parti nessuno è ancora uscito dalla tana. Ben presto la strada si trasforma in una sorta di Parco Nazionale degli Ulivi, i giovani a destra e gli anziani saggi a sinistra. Qui diventano alberi regali, dal tronco ben più grande di un abbraccio. Sono presenze surreali, cave per la loro natura ma risonanti delle voci del vento o dei canti degli insetti. La loro ombra tonda macchia il terreno rendendolo luogo di pace. Così fanno gli ulivi: si uniscono uno all'altro come per una vicinanza naturale, come se essere due con tutte le imperfezioni di quei bitorzoli non fosse che la conseguenza di un ordine delle cose. E noi, forse per un riflesso involontario, si parla di amore non convenzionale, di amore che si logora senza farlo apposta. Altro che ulivi.
Così entriamo a Mesagne, coi pensieri impigliati un po' più su. È l'incontro col magnifico castello che ci fa tornare a sentire i piedi: siamo arrivate. Nel piccolo bar dove ci fermiamo, destiamo interesse. Un uomo sulla quarantina, bianco nei suoi vestiti da lavoro, cita Forrest Gump: "quando poi si ferma gli chiedono: perché lo fai? La gente si aspettava risposte, che ne so, per la pace, per i diritti e lui dice solo perché volevo correre. Però, ragazze, quello è un film".
Perché lo facciamo, Giuli?
Perché lo facciamo, Clara?
Come si spiega che un giorno in cammino sono dieci là fuori?
Non si spiega, si fa.
Il resto sono pensieri appiccicosi come questa giornata umida, perché l'imminenza della fine porta con sé tante domande e altrettante paure. Il ritorno, la "normalità", certi crucci quotidiani che qui sono sostituiti da un solitario "dove dormiamo stanotte?". Domanda che oggi non trova risposta facile, ma che viviamo con tranquillità. Facciamo un tentativo in chiesa, domandiamo in giro. Don Gianluca non c'è, arriverà più tardi, nel pomeriggio. E allora sfidiamo la controra più afosa dell'intero viaggio cercando ogni manifestazione d'ombra, scriviamo, suoniamo, crolliamo a terra vicino a una fontana nel tentativo di mettere a riposo corpo e pensieri.

 
E accade.
Accade sempre qualcosa, se si lascia una possibilità e si attende serenamente, senza fretta.
"Ci sarebbe la casa parrocchiale dove facciamo catechismo, ma non è decorosa per dormirci", ci dice un po' imbarazzato don Gianluca, tra una messa e l'altra. Noi ci offriamo di pulirla e il gioco è fatto: mentre il sole inizia a indietreggiare e si alza un filo di vento, noi ci sistemiamo "casa".

 

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